Stipendi, solo in Italia siamo rimasti fermi agli anni ’90? L’approfondimento
L’Italia è l’unico Paese in cui gli stipendi sono rimasti fermi agli anni ’90? È una domanda tutto sommato legittima, considerando le questioni sollevate nel nostro Paese, nel dibattito pubblico e in quello politico, per quanto concerne salari minimi e politiche retributive.
A fare chiarezza è stato l’economista Luciano Canova in una interessante intervista pubblicata sul portale “Morning Future”. Canova, divulgatore della Scuola Enrico Mattei, discute di un dato, diventato in poco tempo reale sul Web e sui social, in cui si annuncia come il calo di salari medi italiani dal 1990 al 2020 è pari a -2,9%. “L’Italia è l’unico Paese europeo in cui sono diminuiti, passando da 38,9mila a 37,8mila dollari l’anno”, si legge. Ma è davvero così?
“La produttività italiana è ferma da decenni o, quanto meno, non cresce al ritmo di quella degli altri Paesi: un sistema produttivo e competitivo libera spazio e risorse per aumentare gli stipendi”, spiega in maniera decisamente esaustiva Canova.
“Come accade per esempio nella sempre decantata Germania che sperimenta contratti collettivi con riduzione di orario e aumenti di salario. Ma ciò accade anche in Spagna e Portogallo che, fino a pochi anni fa, rappresentavano i cugini di sventura dell’area sud Europa e che, pur con mille caveat, sembrano avviati su un sentiero di sviluppo più in linea con il resto del continente”.
Come abbiamo già accennato, le parole di Canova si inseriscono in un più ampio quadro in cui l’Italia è uno dei pochi Paesi in cui non esiste una legge appositamente pensata per istituire un salario minimo. Come uscire da questa spirale negativa? Occorre, senza dubbio, una maggiore sensibilità delle istituzioni sul tema, su cui, al di là delle letture che vogliamo dare ai dati, siamo ancora indietro.
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Redazione HR