Dieci anni di successi per la farmaceutica italiana, ora servono garanzie per investire
Tra il 2007 e il 2017 le aziende del nostro Paese hanno sfidato la crisi – incrementando ricavi, export, occupazione e ricerca. Oggi chiedono politiche adeguate per non disperdere questo patrimonio. Ecco la prima parte dell'approfondimento sul rapporto “Industria 2030” realizzato da Nomisma.
L’ industria farmaceutica a capitale italiano mostra i muscoli. Rivendica la capacità di rispondere alla crisi garantendo occupazione e sviluppo. E chiede al Paese regole certe e stabili per continuare a crescere. A supportare il monito sono i numeri del rapporto “Industria 2030” realizzato da Nomisma e presentato a gennaio a Roma. Parliamo di un’industria che in dieci hanno ha incrementato del 70% il giro d’affari, del 107% l’export e del 57% i posti di lavoro.
Le 13 aziende farmaceutiche italiane
Il rapporto Nomisma si basa sui dati di tredici aziende “made in Italy” aderenti a Farmindustria: Abiogen Pharma, Alfasigma, Angelini, Chiesi, Dompé, Ibn Savio, Italfarmaco, Kedrion, Mediolanum, Menarini, Molteni, Recordati e Zambon. “Aziende – sottolinea Nomisma – tipiche del nostro capitalismo farmaceutico, caratterizzate dal controllo familiare e dalla pervicace volontà di mantenere in Italia buona parte della ricerca e della produzione, nonché la principale sede legale”.
I ricavi
L’analisi mette a confronto i risultati raggiunti da queste aziende – chiamate nel report le “Fab13” – nel 2007 e nel 2017. Un decennio di successi, nonostante la crisi economica. Nel 2017 le aziende italiane hanno incassato ricavi aggregati per oltre 11 miliardi di euro contro i 6,1 miliardi del 2007 (70,3%), grazie soprattutto all’espansione dei ricavi esteri.
Export e primati
Ancora più marcata è la crescita delle esportazioni: sono aumentate del 106,9% in dieci anni e valgono 24,8 miliardi di euro, cioè il 5,8% dell’export di tutto il manifatturiero italiano. Un trend che ha portato la bilancia commerciale del settore in positivo di quasi un miliardo di euro. E il 2017 è stato l’anno in cui l’Italia ha sorpassato la Germania per la produzione di medicinali (31,2 contro 30 miliardi di euro), conquistando la vetta. “Un primato – rileva Nomisma – a cui hanno contribuito senza dubbio le importanti multinazionali presenti in Italia, ma al contempo un successo reso possibile dagli elevati ritmi di crescita, dalla redditività, dall’innovazione e dalla capacità di internazionalizzazione di numerosi gruppi medio-grandi, aventi proprietà ed headquarter italiani”.
L’occupazione
Una delle rivendicazioni d’orgoglio delle Fab13 riguarda il contributo all’occupazione. Tra il 2007 e il 2017 le tredici aziende sono passate da 26.610 occupati a 42 mila. Di questi, 15.390 lavorano nelle sedi italiane, il 46% sono donne, l’87% diplomati o laureati. Il totale di addetti dedicati all’innovazione è superiore al 5% in tutte le imprese. Solo nel triennio 2015-2017 il numero di dipendenti in Italia è aumentato del 4,7% (circa 690 addetti). Ai dipendenti vengono messi a disposizione strumenti di valorizzazione professionale legati alla formazione e al welfare aziendale.
Le Fab13 assicurano, ad esempio, il sostegno alla previdenza integrativa nell’82% dei casi, assicurazioni per dipendenti e familiari (73%), formazione professionale e sostegno alla mobilità (64%), sostegno alle spese sanitarie (64%) e all’educazione dei figli (55%). Quantità, ma anche qualità dell’occupazione. “Vista la complessità delle produzioni, ma anche la necessaria strutturazione delle funzioni corporate presenti negli headquarter – sottolinea Nomisma – si può affermare che le Fab13 non siano soltanto un importante driver quantitativo di crescita occupazionale ma anche un potente incubatore di professionalità intellettuali e ad elevata specializzazione”. Nel 2017 quasi il 47% della forza lavoro delle Fab13 è impiegato in R&S e produzione, il 37,4% in ambito commerciale e il 15,7% ricopre funzioni corporate.
Ricerca e sviluppo
Le Fab13 sono soprattutto imprese familiari, vitali e dinamiche, più orientate all’innovazione rispetto alla media delle altre imprese manifatturiere italiane. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono aumentati da 542 milioni nel 2007 a 906 milioni di euro nel 2017 (+65%). Tra l’altro con una significativa accelerazione a partire dal 2014, ancora una volta quando la crisi finanziaria colpiva più duramente i Paesi industrializzati. Secondo le stime delle aziende, il dato ha superato quota un miliardo di euro nel 2018. Gli investimenti in ricerca e sviluppo hanno anche dato impulso all’indotto di nuove aziende, parchi tecnologici, partnership pubblico-private con istituzioni accademiche e centri di ricerca, startup e reti internazionali.
L’internazionalizzazione
In Italia le Fab13 hanno 28 stabilimenti produttivi in diverse regioni, soprattutto al Nord e al Centro. Ma è “internazionalizzazione” una delle parole chiave del rapporto Nomisma. “Le farmaceutiche italiane – sottolinea il report – hanno scelto di muovere i primi passi verso i mercati esteri inizialmente attraverso una semplice presenza commerciale, ma poi via via con l’acquisizione e l’apertura ex novo di intere filiali, di stabilimenti e di centri di ricerca, con una spiccata concentrazione nei Paesi occidentali, europei e americani”.
In questo caso il confronto con il passato realizzato da Nomisma guarda ancora più lontano: nel 1997 le Fab13 avevano 7 stabilimenti e 42 filiali in giro per il mondo; nel 2017 i numeri diventano rispettivamente 26 e 200. Secondo il report uno dei punti di forza che accomuna le Fab13 è proprio “l’abilità di sfruttare l’internazionalizzazione come motore di crescita, senza che questo limiti la presenza, l’impegno e la creazione di opportunità all’interno dei confini italiani”. In breve, internazionalizzare senza delocalizzare.
La resilienza
C’è un’altra parola chiave che, secondo Nomisma, si può associare ai numeri dell’industria farmaceutica italiana: è resilienza. “Mentre il mondo occidentale – sottolinea il report – era sferzato dalla crisi più severa dell’epoca industriale, le Fab13 continuavano a produrre crescita e sviluppo: nella produzione, nei fatturati, nel raggiungimento di un saldo positivo della bilancia commerciale e ancora nell’occupazione, nella ricerca e nell’incremento della presenza internazionale”.
In questi anni, tuttavia, le aziende non hanno dovuto fronteggiare soltanto la congiuntura economica. Hanno dovuto assorbire, sostiene Nomisma, altri urti, come quelli derivanti dalla “tendenza del nostro Paese a individuare nell’industria farmaceutica una variabile di aggiustamento della finanza pubblica”. Eppure le aziende hanno offerto negli anni strumenti di prevenzione e cura (i farmaci) in relazione a una domanda crescente e a costi decrescenti.
E ancora: “Nello stesso arco temporale della crisi e della contrazione della spesa farmaceutica – ricorda Nomisma – le imprese a capitale italiano hanno infatti reagito anche a un’ondata di scadenze brevettuali senza precedenti, che ha sostanzialmente trasformato in medicinali off patent, e quindi ad un prezzo di rimborso fortemente decurtato, la quasi totalità dei farmaci comunemente utilizzati per prevenire e curare le patologie più impattanti – in termini epidemiologici – sulla salute pubblica, in quanto collegate al progressivo invecchiamento della popolazione italiana”. Aree in cui proprio le aziende italiane detengono importanti quote di mercato.
Un ecosistema per restare
Non è un caso se, completato il bilancio sui dieci anni trascorsi, il rapporto Nomisma s’interroga sulla tenuta delle aziende protagoniste di questo contributo alla salute pubblica: “Le imprese farmaceutiche italiane hanno reagito alla perdita di copertura brevettuale, che ha abbassato i prezzi della quasi totalità dei farmaci, investendo in modo massiccio in innovazione, come ad esempio nel campo delle biotecnologie e delle terapie geniche.
Le aziende italiane – spiega Nomisma – non chiedono sostegni o incentivi ma di poter contare su un contesto di regole certe che consenta una pianificazione industriale a medio-lungo termine”. E chiedono, inoltre, la “condivisione di politiche industriali che permettano di superare le sfide di un mercato affetto da crescenti criticità produttive e commerciali indotte da minori ricavi unitari e maggiori costi operativi”. In altre parole, un ecosistema che consenta alle aziende di “restare intimamente connesse al territorio nazionale”, senza percorrere la via della delocalizzazione, intrapresa da molte (forse troppe) imprese negli ultimi vent’anni.
Visioni a lungo termine
Secondo Alberto Chiesi, presidente di Chiesi Farmaceutici, i “tempi lunghi” citati da Sergio Dompé impongono “una visione di lungo termine” dell’attività aziendale, che a sua volta richiede “una ragionevole stabilità del sistema” in cui le imprese operano. “Tra 2013 e 2018 – sottolinea Chiesi – è stato possibile raddoppiare investimenti grazie alla stabilità nel Paese, che è un forte stimolo a investire”. Investimenti indispensabili “in un contesto di forte competizione internazionale”, considerato che proprio l’internazionalizzazione “è stata un’arma vincente delle aziende italiane”. Francesco De Santis, presidente di Italfarmaco, auspica “regole stabili che permettano alle aziende di pianificare e crescere” ed esprime diversi timori.
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Redazione Business School