Impatriati: il risparmio attrae lavoratori dipendenti residenti all’estero? Ai consulenti fiscali il duro lavoro di individuare i veri rischi per i datori di lavoro
Il sistema fiscale italiano, al fine di favorire lo sviluppo economico, scientifico e culturale del “Bel Paese”, prevede una serie di misure agevolative dirette ad attirare capitale e risorse umane.
Tali misure possono essere raggruppate in due macro-categorie: (i) quelle volte ad agevolare i soggetti che, trasferendosi in Italia a prescindere dallo svolgimento di una particolare attività lavorativa, hanno la possibilità di optare per una flat tax per tutti redditi di fonte estera, e (ii) quelle volte ad agevolare i soggetti che trasferiscono la residenza in Italia per svolgervi un’attività di lavoro, prevedendo una parziale detassazione dei redditi ivi prodotti.
Nel prosieguo si farà riferimento a quest’ultima categoria di misure agevolative - alias regime dei c.d. “lavoratori impatriati” - previsto dall’art.16 del D.lgs. 147/2015.
Il beneficio fiscale in parola, infatti, è stato oggetto di recenti modifiche da parte del Decreto Crescita n.34 del 30 aprile 2019. Le novità riguardano l’accesso al regime per una platea più ampia di soggetti, l’aumento della quota di reddito esente al 70% (in precedenza fissata al 50%) che viene portata al 90% per chi trasferisce la residenza nelle regioni del Sud Italia, e l’introduzione di alcune ipotesi di estensione per ulteriore 5 anni dell’agevolazione fiscale.
Le nuove disposizioni trovano applicazione a far decorso dal 2020 e ne potranno beneficiare i lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato, a condizione che non siano stati residenti in Italia nei 2 periodi d’imposta precedenti il predetto trasferimento (e non più nei 5 periodi di imposta precedenti al trasferimento). Sono richieste, inoltre, le seguenti condizioni: (i) l’impegno a risiedere in Italia per almeno 2 anni e (ii) che l’attività lavorativa sia prestata prevalentemente nel territorio Italiano.
Vengono meno, dunque, due condizioni di accesso al regime speciale previste dalla previgente normativa del 2015, ovvero: a) svolgere la propria attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano presso un’impresa residente nel territorio dello Stato, in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con una società del medesimo gruppo; b) rivestire ruoli direttivi ovvero essere in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione.
Un’altra modifica riguarda la tipologia di redditi prodotti in Italia per i quali è possibile godere del beneficio. Per effetto delle modifiche, infatti, sono agevolabili i redditi di lavoro dipendente, i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente (prima non previsti) e i redditi di lavoro autonomo.
Inoltre, il regime speciale potrà essere applicato anche ai redditi d’impresa prodotti da lavoratori impatriati che avviano un’attività in Italia a partire dal 1° gennaio 2020.
Nulla cambia per quanto riguarda il periodo agevolato, che decorre dal periodo di imposta in cui è avvenuto il trasferimento della residenza fiscale in Italia e per i 4 anni successivi. Inoltre, si riconosce l’applicazione del regime in commento per ulteriori 5 anni ai lavoratori con un figlio minorenne o a carico (anche in affido preadottivo), ovvero se il lavoratore acquista un immobile residenziale dopo il trasferimento o nei 12 mesi precedenti lo stesso. In queste ipotesi per gli ulteriori 5 anni i redditi concorrono a formare l’imponibile per il 50% del loro ammontare o, addirittura, per il 10% se il lavoratore ha almeno tre figli a carico.
La nuova normativa, al comma 5-ter, altresì, prevede che possano accedere all’agevolazione anche i soggetti che non si sono mai iscritti all’AIRE (rimanendo, quindi, iscritti nell’anagrafe della popolazione residente) purché nei due anni precedenti abbiano avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni. Tale disposizione è stata introdotta al fine di evitare che possano essere esclusi dall’agevolazione quei soggetti che pur avendo trasferito sostanzialmente la propria residenza all’estero, fossero da considerarsi residenti ai sensi dell’art. 2 del TUIR[1], ossia per aver dimenticato di cancellarsi dall’anagrafe della popolazione residente. A ben vedere, la disposizione ha soprattutto una finalità deflattiva del contenzioso. Non a caso, i “cervelli” che avevano fatto rientro in Italia optando per il regime degli impatriati, si sono visti contestare dal Fisco l’abbattimento dell’imponibile del 50% per gli anni passati, in forza della mancata iscrizione all’AIRE, con una ripresa a tassazione di Irpef, interessi e sanzioni in misura piena (sul punto, Marco Mobili in “Rientro Cervelli, stop alle cartelle per chi aveva la residenza all’estero” in Sole 24 ore del 28 marzo 2019).
Ciò detto, la modifica normativa ben si presta ad alcuni spunti riflessivi, soprattutto da parte dei consulenti tributari, veri addetti ai lavori.
Venendo infatti agli aspetti patologici della misura in esame, l’Amministrazione precisa in generale che il beneficiario decadrà dall’agevolazione, con conseguente recupero dei benefici già fruiti, e con applicazione delle relative sanzioni e interessi, qualora trasferisca la propria residenza fuori dall’Italia prima che siano decorsi due anni dal suo trasferimento nel territorio dello Stato. Queste ultime precisazioni - già oggetto di ulteriori sviluppi e chiarimenti in sede di interpello ed in relazione alla temporalità delle vicende lavorative (es. in caso di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, in caso di soggetti distaccati che rientrano sul territorio italiano) - rimangono ancora oscure ove riferite alla situazione di un datore di lavoro di un impatriato beneficiato, a rischio di decadenza.
In caso di lavoro subordinato (o ad esso assimilato), è infatti il datore di lavoro che – stando alla circolare 17/E in relazione alla vecchia normativa 147/2015 - applica il beneficio dal periodo di paga successivo, sulla base di una richiesta scritta presentata dal lavoratore.
Tale richiesta, che rappresenta a tutti gli effetti un’autocertificazione, deve rendere noto in particolare:
- La dichiarazione di possedere i requisiti previsti dai regimi agevolativi;
- L’impegno a comunicare tempestivamente ogni variazione di residenza prima del decorso del periodo minimo di permanenza;
- La dichiarazione di non beneficiari di ulteriori regimi agevolativi, concessi sulla base della residenza fiscale in Italia (come nel caso della flat tax prevista per i ccdd “HNWI’s”, meglio noti come paperoni).
Ebbene, in caso di decadenza dal regime, non è tutt’oggi chiaro quali possano essere le conseguenze che ne deriverebbero sul fronte sanzionatorio e in termini di accertamento. D’altronde, è lecito nutrire dei dubbi se, in sede di recupero dell’imposta per reticenze, inerzie o false dichiarazioni rese nella predetta auto - dichiarazione da parte dei lavoratori dipendenti, debba essere coinvolto il datore di lavoro.
Ancora di più, sorgono dubbi sulle conseguenze derivabili in capo al datore di lavoro, nelle ipotesi di contestazioni postume – in capo al dipendente impatriato – da parte dell’Amministrazione finanziaria, sull’effettiva residenza in Italia o all’estero, di cui appaiono carichi i repertori della giurisprudenza tributaria più recente. In quest’ultimo caso, infatti, la corretta determinazione della base imponibile determina una serie di conseguenze in termini di richiesta di benefici fiscali riferibili al solo soggetto residente in Italia, nonché di corretta gestione - tramite ritenuta alla fonte da parte del datore di lavoro in qualità di sostituto d'imposta – del solo reddito da lavoro prestato in Italia da soggetto non residente, ai sensi dell’art. 23 comma primo lettera b).
È parere di chi scrive che, sul punto, un esperto fiscale possa trovare adeguato riparo per il proprio cliente nelle previsioni di cui all’art. 6 comma 3 del Dlgs 18 dicembre 1997 n. 472, in tema di cause di non punibilità per le sanzioni tributarie, dove è sancito che il sostituto non è punibile per fatto addebitabile esclusivamente a terzi.
Un datore di lavoro infatti, per quanto qualificato (si pensi al caso di multinazionali, dotati di addetti alle risorse umane e di validi amministrativi), non è nemmeno potenzialmente in grado di sindacare l’effettiva attribuibilità del beneficio fiscale al rimpatriato, se non a costo di delegare “reparti investigativi” sulla ricerca delle modalità di gestione della vita privata dei propri dipendenti, con palese violazione della privacy.
Rimane tuttavia il dubbio se quella esimente possa soccorrere sempre, come nelle ipotesi in cui il dipendente, ad esempio, nonostante l’autodichiarazione, risulti iscritto all’AIRE ovvero richieda al proprio datore l’abbattimento del proprio imponibile in misura superiore al 30%, previsto dall’art. 16 Dlgs 147/2015, in presenza di una residenza in regioni diverse da quelle indicate dal comma 5bis del predetto decreto.
In definitiva, a fronte del sicuro potenziamento dell’agevolazione originaria da parte del Decreto Crescita per l’inclusione di soggetti che producono redditi diversi da quelli di lavoro dipendente e che non siano dotati di particolari capacità manageriali e/o accademiche, residuano una serie di possibili rischi operativi che, almeno sul fronte datoriale, ne potrebbero fiaccare le legittime aspettative.
Dott. Maurizio Di Salvo
(Coordinatore Didattico e Docente: Master in Diritto Tributario)
[1] Ai sensi dell’art.2 del TUIR, si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta (183 giorni anche non consecutivi) sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente (ANPR), o hanno la residenza o il domicilio in Italia ai sensi dell’art. 43 del cod. civ.
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Redazione Business School