Diritto all'oblio: la Cassazione ne precisa fondamento e caratteristiche
Alla base del riconoscimento del diritto all’oblio ai fini del risarcimento del danno l'illecito trattamento di dati personali viene specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell'articolo di cronaca e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico pubblicato diverso tempo addietro e della sua diffusione sul Web con conseguente pregiudizio per i soggetti coinvolti.
La Corte di Cassazione, sez. I civile, con la sentenza del 24 giugno 2016, n. 13161 torna su un argomento di grande attualità come il diritto all’oblio che negli ultimi tempi ha assunto una crescente rilevanza a seguito di diverse pronunce della stessa Corte e dell’avvento del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali che ha recepito pienamente i principi che sono alla base di tale diritto.
Nel caso di specie il Tribunale di Chieti aveva condannato al risarcimento del danno per violazione del diritto all’oblio sia il direttore che l’editore di una testata giornalistica telematica per la permanenza a tempo indeterminato di un articolo su una vicenda giudiziaria di natura penale che aveva coinvolto i ricorrenti per un fatto avvenuto tempo fa e che non si era ancora conclusa. I ricorrenti lamentavano naturalmente il pregiudizio alla propria reputazione personale con conseguente danno all'immagine di un locale da loro gestito.
La Suprema Corte all’uopo interpellata ha confermato in toto la decisione del Tribunale evidenziando che l'illecito trattamento di dati personali è stato specificamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell'articolo di cronaca e nemmeno nella conservazione e archiviazione informatica di esso, ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico pubblicato tempo fa e della sua diffusione sul Web, quanto meno a decorrere dal ricevimento della diffida in data 6.09.2010 per la rimozione della pubblicazione dalla rete (spontaneamente attuata solo nel corso del giudizio).
In particolare, secondo la S.C., il Tribunale ha giustamente rilevato che:
a) Era incontestato che digitando (tramite il motore esterno di ricerca Google) il nominativo dei ricorrenti si accedeva alla prima pagina del sito web che includeva, affiancato e associato alla reclamizzata attività del locale da loro gestito, anche il link sull'articolo di cronaca redatto all’epoca sulla vicenda di rilevanza penale ed agevolmente visualizzabile;
b) La facile accessibilità e consultabilità dell'articolo giornalistico, superiore a quelle dei quotidiani cartacei, tenuto conto dell'ampia diffusione locale del giornale on line, consentiva di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale fosse trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistica;
c) Il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione, e ciò in relazione alla peculiarità dell'operazione di trattamento, caratterizzata dalla capillarità della divulgazione dei dati trattati e dalla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale.
Secondo la Corte, quindi, i motivi di censura appaiono infondati rivelandosi la pronuncia di merito aderente alla normativa sul trattamento dei dati in ambito giornalistico integrata e modificata (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 6, art. 12, commi 1, 3 e 4, art. 130 e 139 e provvedimento del Garante del 29 luglio 1998) dalle disposizioni del codice di deontologia professionale, per la quale anche in questo specifico settore trovano applicazione le regole generali (D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 6 e 137) di cui pure all'art. 7, comma 1, lett. e (in correlazione con l'art. 2 dal codice deontologico), D.Lgs. n 196 del 2003, art. 15 e art. 25, comma 1, lett. a.
D'altra parte, se da un canto la persistente pubblicazione e diffusione sul sito web della notizia di cronaca in questione risalente a diverso tempo addietro, appare per l'oggettiva e prevalente componente divulgativa, esorbitare dal mero ambito del lecito trattamento d'archiviazione on line di dati giornalistici per scopi storici o redazionali (in tema cfr. anche Cass. n. 8889 del 2001), dall'altro ai valorizzati fini risarcitori e di regolamentazione delle spese processuali, si rivela plausibile, in assenza di richiamati sopravvenuti aggiornamenti della pubblicata vicenda, apparentemente priva di peculiari profili altrimenti atti a denotarne il permanente interesse anche sociale per la collettività sia pure locale (v. Cass. n. 3679 del 1998).
Indubbiamente l’oblio è un diritto che va oltre la tutela della privacy e nasce a seguito di elaborazioni dottrinarie, giurisprudenziali (v. Cass., 9/4/1998, n. 3679; Cass., 25/6/2004, n. 11864 e da ultimo Cass., 05/04/2012, n. 5525) e principalmente delle Autorità Garanti europee. Esso è da intendersi quale diritto dell’individuo ad essere dimenticato; diritto che mira a salvaguardare il riserbo imposto dal tempo ad un notizia già resa di dominio pubblico.
Come fondamento normativo del diritto all'oblio, il Codice della Privacy prevede che il trattamento non sia legittimo qualora i dati siano conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo superiore a quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti o trattati (art. 11 d.lgs. n. 196/2003). Lo stesso interessato ha il diritto di conoscere in ogni momento chi possiede i suoi dati personali e come li adopera, nonché di opporsi al trattamento dei medesimi, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta, ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l’aggiornamento, l’integrazione (art. 7 d.lgs. n. 196/2003).
Bisogna comunque rilevare che (come nel caso di specie) il problema del diritto all’oblio nasce storicamente in rapporto all’esercizio del diritto di cronaca giornalistica. Difatti, presupposto perché un fatto privato possa divenire legittimamente oggetto di cronaca è l’interesse pubblico alla notizia. La collettività va informata con tempestività, in modo da poter conoscere l’accaduto in tempo reale e con completezza, così da fornirle una chiara visione del fatto.
Ma una volta che del fatto il pubblico sia stato informato con completezza, cessa l’interesse pubblico in quanto la collettività ha ormai acquisito il fatto. Non vi è più una notizia. Riproporre l’accadimento sarebbe inutile, poiché non vi sarebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare. Non solo inutile per la collettività, ma anche dannoso per i protagonisti in negativo della vicenda.
Il diritto all’oblio è quindi la naturale conseguenza di una corretta e logica applicazione dei principi generali del diritto di cronaca. Come non va diffuso il fatto la cui diffusione (lesiva) non risponda ad un reale interesse pubblico, così non va riproposta la vecchia notizia (lesiva) quando ciò non sia più rispondente ad una attuale esigenza informativa.
L’attività giornalistica è stata modificata dallo sviluppo di Internet. La possibilità di raccogliere, incrociare, scambiare e archiviare informazioni personali si è enormemente accresciuta, consentendo una straordinaria circolazione e diffusione di conoscenze e di opinioni. La conseguenza è che oggi è divenuto estremamente difficile esercitare il diritto all’oblio in quanto le legittime richieste di cancellazione o aggiornamento devono anche tener conto dei diversi luoghi virtuali in cui tali informazioni compaiono: sul sito, sulla copia cache della pagina web, sui titoletti che costituiscono il risultato della ricerca tramite motore di ricerca.
Ognuno di questi luoghi ha un titolare di trattamento diverso e per i gestori dei motori di ricerca extraeuropei c’è l’ostacolo della disciplina applicabile. Una volta entrati nel circuito elettronico della rete, insomma, è davvero difficile far valere i propri diritti.
Il Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali n. 2016/679 ha recepito il diritto all’oblio all’art. 17 dove viene sancito che l'interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l'obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, se sussiste uno dei motivi seguenti:
- I dati non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;
- L’interessato ritira il consenso su cui si basa il trattamento e non sussiste altro motivo legittimo per trattare i dati;
- L'interessato si oppone al trattamento dei dati personali e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento;
- I dati sono stati trattati illecitamente;
- I dati devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell'Unione o degli Stati membri cui è soggetto il titolare del trattamento;
- I dati sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione.
Inoltre sempre l’art. 17 chiarisce che il titolare del trattamento, se ha reso pubblici dati personali ed è obbligato a cancellarli, tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione prende le misure ragionevoli, anche tecniche, per informare i responsabili del trattamento che stanno trattando i dati della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali.
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Redazione Alma Laboris