Concorrenza sleale e obbligo di fedeltà del lavoratore dipendente
Quando il dipendente che svolge un secondo lavoro si considera «in concorrenza» con il datore di lavoro che lo ha assunto?
È possibile un secondo lavoro, ma solo a condizione che non si faccia concorrenza all’azienda presso cui si è già assunti. Le due attività, in altre parole, non devono essere tra loro in concorrenza. Ma, in termini pratici, quando è vietato fare concorrenza all’azienda dove si lavora? In quali casi si può parlare di attività rivali tra loro? La risposta è in una recente sentenza della Cassazione (n. 8131/17 del 29/03/2017) che avverte: c’è un abuso del dipendente tutte le volte in cui vengono realizzate azioni concorrenziali e violazioni di segreti produttivi.
Divieto di concorrenza con il datore di lavoro: cosa prevede la legge
L’Art. 2105 del codice civile stabilisce che il lavoratore non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Quest’obbligo di fedeltà si sostanzia in un comportamento leale verso il datore di lavoro e diretto a tutelarne in ogni modo gli interessi.
In particolare, al lavoratore spetta:
- Il divieto di concorrenza;
- L’obbligo di riservatezza (divieto di diffondere notizie attinenti l’impresa con pregiudizio per essa).
L’obbligo di riservatezza vige anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, per un ragionevole lasso di tempo; il divieto di concorrenza opera, invece, solo durante il rapporto. Tuttavia l’azienda può far firmare al dipendente un patto di non concorrenza con cui gli vieta la concorrenza anche in una fase successiva alla cessazione del rapporto di lavoro. Tale patto, però, va debitamente retribuito in proporzione alla sua durata.
Quando il lavoratore è in concorrenza con il datore di lavoro?
Il lavoratore si pone in concorrenza con il datore di lavoro quando svolge attività che sono anche solo potenzialmente (anche se non attualmente) produttive di danno. Secondo la Cassazione, con la sentenza 1878/2005, l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato va collegato ai principi generali di correttezza e buona fede e, pertanto, impone al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente; ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore è sufficiente la mera preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro anche solo potenzialmente produttiva di danno; in questa prospettiva, si è affermato che integra violazione del dovere di fedeltà ed è potenzialmente produttiva di danno, la costituzione, da parte di un lavoratore dipendente, di una società per lo svolgimento della medesima attività economica svolta dal datore di lavoro.
Secondo un diverso orientamento, è invece necessario che l’attività concorrenziale sia stata concretamente attuata, almeno in parte (Sentenza della Corte di Cassazione 14527/1999). Secondo tale orientamento (più datato del precedente), non sono sufficienti gli atti che esprimano il semplice proposito del lavoratore di intraprendere un’attività economica concorrente con quella del datore di lavoro, ma è necessario che almeno una parte dell’attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto.
Il lavoratore è in concorrenza con il datore di lavoro quando predispone efficaci strumenti concorrenziali, senza necessariamente raggiungere un certo profitto, ma semplicemente violando la fiducia del datore di lavoro nei suoi confronti. In particolare, afferma la Suprema Corte (Sentenza n. 2372/1986), l’obbligo di fedeltà del dipendente – obbligo che diventa più intenso man mano che si sale nella gerarchia del personale dipendente – è violato quando il lavoratore subordinato tratta affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con il datore di lavoro nel medesimo settore commerciale o produttivo; a tal fine è sufficiente – per ritenere integrata la violazione dell’obbligo suddetto e di conseguenza sussistente la giusta causa di licenziamento – il fatto che un dirigente abbia intrapreso delle trattative con altri dipendenti per costituire una società destinata ad operare nello stesso settore dell’impresa del datore di lavoro.
Ancora la Cassazione afferma che l’obbligo di non concorrenza «deve intendersi come divieto di abuso di posizione attuato attraverso azioni concorrenziali e/o violazioni di segreti produttivi o come divieto di condotte che siano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del dipendente nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o che siano, comunque, idonee a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario al rapporto».
In Conclusione
La violazione del divieto di concorrenza può portare anche al licenziamento per violazione della fiducia che il datore di lavoro ha riposto nel dipendente.