Job Hopping, i pro e i contro di chi cambia spesso lavoro
C’è chi punta sul passaggio da un lavoro all’altro come leva per migliorare il proprio trattamento salariale. Il 64% dei lavoratori americani sono job hopper, soprattutto tra i Millennials.
Cos’è il Job Hopping
Il Job Hopping è un fenomeno sempre più diffuso, in Italia ma non solo. Si tratta della pratica di passare da un posto di lavoro all’altro, cambiando frequentemente azienda e talvolta anche città.
Parzialmente individuabile come prodotto di una situazione storica e socio-economica foriera di crisi e disorientamento, il job hopping è in realtà assunto sempre più spesso anche come atteggiamento spontaneo, dai giovani che iniziano ad affrontare un percorso professionale in cerca di una collocazione che faccia al caso loro.
Il fenomeno, quindi, sembra non essere necessariamente una conseguenza della diffusa precarietà che colpisce i neolaureati che si affacciano sul mondo del lavoro. In Italia dove la disoccupazione è al 10% e tocca punte del 31% per quanto riguarda i giovani.
In generale, sono circa 2,6 milioni gli Italiani senza lavoro (dati Istat relativi a settembre 2018). Fra questi, c’è anche chi punta sul passaggio da un lavoro all’altro come leva per migliorare il proprio trattamento salariale. Pochi, a dire il vero, perché il job hopping (letteralmente “saltare da un lavoro all’altro”) funziona meglio laddove il tasso di disoccupazione è basso e c’è una manifesta mancanza di manodopera. Come negli Usa dove, a fronte di circa 6 milioni di persone in cerca di lavoro, ci sono 6,7 milioni di posti liberi. Passare da un impiego all’altro nel giro di poco tempo, solitamente un paio d’anni, può portare in dote un +30% sullo stipendio. Tanto che, secondo una rilevazione di HR Robert Half, il 64% dei lavoratori americani sarebbe job hopper.
Su 10.455 giovani della Generazione Y nati fra il 1983 e il 1994, il 43% è propenso a cambiare lavoro entro due anni dall’assunzione.
In attesa di tempi migliori, quindi, quello che i job hopper nostrani condividono con quelli a stelle e strisce è una sorta di vocazione generazionale: sono i Millennials i più dediti a questa pratica. Secondo una ricerca Deloitte, su 10.455 giovani della Generazione Y nati fra il 1983 e il 1994, il 43% è propenso a cambiare lavoro entro due anni dall’assunzione, contro un 28% che vuole restare nella stessa azienda oltre i cinque anni dal primo giorno di lavoro. Alla base di questo desiderio non ci sarebbero, come si potrebbe pensare, solo delle motivazioni economiche; anche l’etica fa la differenza. Solo il 17% del campione crede che l’azienda per cui lavora persegua il proprio business in modo etico, mentre il 16% afferma che l’obiettivo è quello di fare esclusivamente il proprio tornaconto senza molto rispetto per la società.
Da una ricerca simile effettuata da Gallup, emerge che il 21% dei Millennials ha cambiato lavoro negli ultimi due anni: una percentuale tre volte superiore rispetto ai non-Millennials che genera un turnover della forza lavoro pari a 30,5 miliardi di dollari all’anno. Parallelamente, anche secondo questa ricerca la causa del job hopping è solo in parte di natura economica. I Millennials che cambiano lavoro lo fanno perché poco coinvolti e stimolati sul posto di lavoro: solo 3 giovani su 10 si sentono connessi a livello emozionale e comportamentale alla propria realtà lavorativa, mentre il 55% prova disaffezione verso la propria occupazione.
È un’arma a doppio taglio: l’esperienza in campi diversi può migliorare e ampliare le proprie skill ma, al contempo, non si riuscirebbe a raggiungere un elevato grado di conoscenza del proprio settore.
Ma, date le giuste condizioni, il job hopping è davvero vantaggioso? Una risposta ha provata a darla il sito The Muse in un articolo dal titolo “Job Hopping Affecting Career”, dove venivano stilati i pro e i contro di questa pratica. Di sicuro l’esperienza in campi diversi può migliorare e ampliare le proprie skill ma, al contempo, non si riuscirebbe a raggiungere un elevato grado di conoscenza del proprio settore.
Stesso discorso anche per il network di contatti: girare fra diverse realtà permette di crearsi un ampio bacino di conoscenze che a sua volta può generare diverse opportunità di lavoro (4 occupati su 10 sono tali grazie a connessioni personali), ma può anche causare diverse rotture. A livello di curriculum, invece, la frequenza ravvicinata con cui si cambia lavoro è senza dubbio un’arma a doppio taglio. Se, da un lato, dà l’idea di una persona motivata, flessibile e adattabile; dall’altro non dà molte garanzie al datore di lavoro sul piano della fedeltà aziendale (e i possibili investimenti in termini di formazione e promozione individuale). Non è un caso che, in un mercato del lavoro di questo tipo, gli investimenti nelle risorse umane sotto forma di finanziamenti per startup dedicate alla ricerca del personale per via tecnologica, siano arrivati a toccare 2,4 miliardi di dollari già nel 2015. Per non parlare di giganti del digitale come Microsoft che ha subito fiutato l’affare garantendosi, nel 2016, il controllo su Linkedin per 26 miliardi di dollari.