I Dispositivi Medici: una lunga storia e una disciplina recente
Al contrario dei termini “farmaco” e “medicinale”, che affondano le proprie radici nel tempo, l’espressione “dispositivo medico” è di diffusione piuttosto recente nel nostro Paese, anche fra gli operatori del settore sanitario.
La normativa italiana in passato
Quando già da alcuni decenni nel mondo anglosassone si parlava di “medical devices”, la normativa italiana non aveva ancora elaborato una nozione e una disciplina corrispondenti a quelle evocate da questi termini della lingua inglese.
In verità, però, una legge degli anni ‘20 (L. 23 giugno 1927, n. 1070) poi trasfusa nel Testo unico delle leggi sanitarie del 1934 (R. D. 27 luglio 1934, n. 1265), aveva ben intuito la necessità di estendere il controllo delle autorità sanitarie anche a quella parte dell’ “armamentario” del medico che non era riconducibile ai medicinali; aveva pertanto stabilito che dovessero essere sottoposti a una “speciale registrazione” da parte del Ministero dell’interno (che allora si occupava anche di sanità) i “presidi medici e chirurgici” che sarebbero stati indicati nel regolamento di esecuzione della stessa legge.
Ma né la legge, né il successivo regolamento (approvato con R.D. 6 dicembre 1928, n. 3112) chiarirono, con una definizione, che cosa dovesse rientrare nella nozione di presidi medici e chirurgici. Il regolamento, tuttavia, stabilì, che si potessero apportare “eventuali variazioni o aggiunte” a detto elenco con decreto del Ministro per l’interno, sentito il Consiglio Superiore di Sanità.
Un serio tentativo di razionalizzazione della materia, dal punto di vista normativo, fu fatto con l’adozione del D.P.R. 13 marzo 1986, n. 128, recante regolamento di esecuzione delle norme contenute nell’articolo 189 del testo unico delle leggi sanitarie del 1934. Sebbene ad oltre cinquant’anni di distanza dall’entrata in vigore della norma di legge, questo regolamento tentò di ridisciplinare i presidi medici e chirurgici suddividendoli in tre grandi gruppi (presidi chimici, dispositivi medici e diagnostici in vitro) a loro volta suddivisi in varie classi.
In sostanza, con il regolamento del 1986 si cercò di mantenere il regime autorizzativo in vigore fin dagli anni ‘20 (che, almeno la linea teorica, risultava offrire le più ampie garanzie dal punto di vista della tutela della salute, perché impediva la commercializzazione dei prodotti che non fossero stati favorevolmente valutati dal Ministero competente), salvaguardando, tuttavia, anche l’esigenza di rendere del tutto trasparenti condizioni e criteri per il rilascio dell’autorizzazione.
Lo scenario europeo
Fino al 1985 le Istituzioni comunitarie avevano cercato di raggiungere l’obiettivo di un mercato unico all’interno della Comunità Europea attraverso direttive di armonizzazione delle legislazioni nazionali, che miravano a stabilire ogni aspetto tecnico dei prodotti di volta in volta considerati e imponevano agli Stati membri di abbandonare le proprie discipline particolari uniformandosi a quella stabilità dalla Comunità. Questo sistema, appariva tuttavia problematico, perché la fissazione di requisiti tecnici di dettaglio richiedeva tempi lunghi, che apparivano incompatibili con gli ambiziosi traguardi che si era posta la Comunità. Con una risoluzione del 7 maggio 1985 (85/C 136/01), il Consiglio approvò, pertanto, una nuova strategia in materia di armonizzazione tecnica, basata sull’approvazione di disposizioni applicabili a settori e a grandi famiglie di prodotti e a tipi di rischio.
I quattro principi fondamentali di questo “nuovo approccio” prevedono che:
- L’armonizzazione assicurata dalla legislazione comunitaria si limiti ai requisiti fondamentali in materia di sicurezza che i prodotti devono soddisfare per poter essere messi in commercio nella Comunità;
- L’elaborazione delle specifiche tecniche di fabbricazione già affidata agli organi competenti in materia di “normalizzazione” industriale;
- Le specifiche tecniche non assumono valore obbligatorio, mantenendo il carattere di norme volontarie;
- Le amministrazioni degli Stati membri siano tenute a riconoscere ai prodotti fabbricati secondo le “norme armonizzate” una presunzione di conformità ai requisiti fondamentali stabiliti dalla direttiva, e il produttore sia libero di non attenersi a tali norme, assumendosi, però, l’onere - in tal caso di dimostrare la conformità dei propri prodotti ai requisiti fondamentali.
Le tre direttive sui dispositivi medici (la direttiva del Consiglio 90/385/CEE, concernente i dispositivi medici impiantabili attivi, 93/42/CEE, relativa ai dispositivi in generale e 98/34/CE, disciplinante i dispositivi medico-diagnostici in vitro) rispondono integralmente alla “filosofia” del nuovo approccio.
Normative e direttive di riferimento in Italia
I decreti legislativi (n. 507 del 1992, n. 46 del 1997 e n. 332 del 2000) che hanno trasposto nell’ordinamento giuridico italiano le tre direttive sui dispositivi medici hanno cercato di integrare e chiarire alcuni punti della disciplina comunitaria che non apparivano del tutto soddisfacenti.
Occorre, però, essere consapevoli del fatto che, in ogni caso, qualsiasi mutamento normativo operato a livello nazionale non può far venir meno il diritto di un operatore di porre e mantenere in commercio, su tutto il territorio comunitario, un prodotto marcato a seguito di certificazione rilasciata da uno degli “organismi notificati” autorizzati in qualsiasi Paese dell’Unione europea. Finché, pertanto, non si troverà il modo di rendere uniformi gli orientamenti e le valutazioni di tutti gli organismi notificati, permarrà il rischio che, a posteriori, un’autorità competente di uno Stato diverso da quello in cui il dispositivo ha ottenuto la certificazione, ritenga che il prodotto in commercio non possieda i requisiti essenziali previsti dalla pertinente direttiva comunitaria o che, addirittura, non possieda le caratteristiche di dispositivo medico.
Considerata, infine, la crescente rilevanza di tali prodotti sia dal punto di vista sanitario, sia da quello dei costi che devono essere sopportati dai sistemi sanitari pubblici, è necessario che la puntuale conoscenza della normativa si diffonda capillarmente in tutti gli ambienti sanitari, favorendo l’adozione di comportamenti consapevoli e responsabili.
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